Limenet: una start-up che porta avanti un progetto innovativo per la cattura dell’anidride carbonica

I sistemi di cattura ed immagazzinamento dell’anidride carbonica sono stati proposti come uno strumento per limitare l’aumento del livello della CO2 nell’atmosfera. L’effettiva utilità di tali sistemi è stata oggetto di accese discussioni. Alcuni attivisti del clima li osteggiano perché ritengono che siano solo una sorta di “foglia di fico” sbandierata dalle multinazionali delle energie fossili per ritardare la transizione energetica. Personalmente ritengo che tali sistemi – se fossero effettivamente disponibili – pur non essendo risolutivi, potrebbero comunque aiutarci a limitare i danni provocati dall’aumento delle temperature globali. Limenet – una start-up nata in collaborazione con il Politecnico di Milano – propone un’idea nuova ed interessante e recentemente ha avviato lo sviluppo del suo primo impianto su scala semi-industriale.

I sistemi di cattura ed immagazzinamento della CO2 – identificati spesso con l’acronimo inglese CCS (Carbon Capture and Storage) – includono un’ampia gamma di tecnologie utilizzabili per catturare l’anidride carbonica presente nell’atmosfera (o quella emessa da impianti industriali) immagazzinandola in forma stabile per tempi molto lunghi.

Il metodo più comunemente utilizzato consiste nel riutilizzo di giacimenti di gas naturale o petrolio esauriti. L’idea è quella di iniettare l’anidride carbonica catturata all’interno di tali giacimenti, ma ci sono ancora dubbi sulla effettiva stabilità a lungo termine del processo di immagazzinamento. Tenuto conto che l’anidride carbonica rilasciata nell’atmosfera terrestre impiega mediamente circa 1 secolo prima di essere riassorbita dagli ecosistemi terrestri o marini, il sistema di immagazzinamento – per essere efficace – dovrebbero garantire tempi di ritenzione pari ad almeno alcuni secoli.

Limenet, una start-up leccese nata in collaborazione con il Politecnico di Milano ha recentemente avviato la costruzione del suo primo impianto su scala semi-industriale dove sarà verificata la scalabilità di una tecnologia proprietaria che prevede di disperdere l’anidride carbonica prelevata dall’atmosfera nell’acqua di mare dopo averla fissata sotto forma di bicarbonato di calcio, Ca(HCO3)2. Il processo non fa altro che ripetere – su scala fortemente accelerata – un fenomeno che avviene anche in natura quando l’interazione dell’anidride carbonica atmosferica con le rocce formate da carbonati porta alla cattura dell’anidride carbonica ed alla sua successiva diluizione in acqua sotto forma di bicarbonato di calcio.

Per quanto riguarda i tempi effettivi di immagazzinamento il sistema Limenet dovrebbe garantire prestazioni molto efficaci. Si stima che l’eventuale rilascio dell’anidride carbonica sciolta in mare sotto forma di bicarbonato di calcio non possa avvenire prima di almeno qualche migliaio di anni.

Il vantaggio aggiuntivo di questo sistema è che il bicarbonato di calcio rilasciato in mare agisce come “tampone“, stabilizzandone il pH. In questo modo si contrasta anche il pericoloso fenomeno dell’acidificazione degli oceani, un effetto secondario dell’innalzamento della concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera.

La tecnologia brevettata da Limenet non è priva di controindicazioni. In particolare per fissare l’anidride carbonica bisogna partire dall’ossido di calcio (CaO, la cosiddetta “calce viva“) che si ottiene trattando ad alta temperatura (“calcinando“) minerali contenenti carbonato di calcio (CaCO3).

La produzione di CaO richiede una grande quantità di materia prima che deve essere estratta da cave od altri depositi naturali posti – possibilmente – a breve distanza dal luogo di lavorazione (per ridurre al minimo le emissioni di anidride carbonica legate al trasporto). Per catturare una tonnellata di anidride carbonica sottraendola all’atmosfera terrestre servono poco più di 2 tonnellate di carbonato di calcio. Questo ci fornisce l’idea del forte impatto ambientale del metodo Limenet.

Una volta arrivato all’impianto di lavorazione, il carbonato di calcio viene calcinato e questo processo (che avviene a temperature superiori ai 1000 °C) deve essere alimentato con energia rinnovabile (o comunque priva di emissioni di CO2 come, ad esempio, l’energia nucleare) perché altrimenti l’impronta carbonica del processo di formazione dell’ossido di calcio cancellerebbe tutti i vantaggi del sistema di cattura e sequestro dell’anidride carbonica atmosferica.

Un ulteriore problema da considerare è legato al fatto che il processo di calcinazione produce non solo ossido di calcio, ma anche una molecola di anidride carbonica che ovviamente non può essere rilasciata nell’atmosfera.

La soluzione elaborata da Limenet prevede di catturare l’anidride carbonica rilasciata durante la calcinazione fissandola sotto forma di bicarbonato di calcio disciolto in acqua marina. Questo richiede l’utilizzo di metà del CaO che è stato prodotto, mentre l’altra metà resta disponibile come CaO “carbon free“. Ogni molecola di CaO “carbon free” può essere finalmente utilizzata per catturare 2 molecole di anidride carbonica prelevata dall’atmosfera, fissandola sotto forma di bicarbonato di calcio disciolto in acqua marina che viene successivamente disperso in mare.

Anche la fase di dispersione in mare del bicarbonato di calcio richiede particolari attenzioni. Finché abbiamo a che fare con impianti di piccole dimensioni non ci sono problemi particolari. Ma se si dovessero sviluppare impianti destinati a trattare quantità imponenti di anidride carbonica sarebbe necessario analizzare il possibile impatto degli scarichi di bicarbonato di calcio in mare. Il materiale – di per sé – non è pericoloso ed anzi svolge – come ricordato precedentemente – un prezioso ruolo per stabilizzare il pH degli oceani. Ma non possiamo escludere che una eccessiva localizzazione di alte concentrazioni di bicarbonato di calcio possano avere un impatto negativo sugli ecosistemi marini.

Come si vede il metodo Limenet è molto elaborato e non privo di forti impatti ambientali. Ci sono inoltre dei vincoli economici molto forti legati – in particolare – al costo dell’energia “carbon free” utilizzata dal processo di calcinazione. Inoltre l’efficacia della cattura diminuisce quando si opera a temperature ambientali molto elevate e questo riduce l’applicabilità del metodo Limenet nelle zone a clima più caldo e soleggiato dove l’energia fotovoltaica a basso costo è più facilmente disponibile.

Non è quindi detto che il metodo Limenet abbia effettivamente successo e possa diventare un riferimento per lo sviluppo dei futuri sistemi CCS. Ma si tratta comunque di una proposta interessante che merita senz’altro di essere approfondita.

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