Risparmio energetico e salute: quali sono i rischi delle lampade UV-C usate per sanificare ambienti chiusi?

Durante la pandemia di Covid-19 si è spesso discusso dell’uso di lampade UV-C per sanificare gli ambienti chiusi, eliminando alla radice virus e batteri. In particolare è stata dedicata molta attenzione alle lampade che operano alla lunghezza d’onda di 222 nm, ritenute particolarmente adatte perché – a differenza di altre lunghezze d’onda UV-C – non aumentano il rischio di danni alla vista o dell’insorgenza di tumori della pelle in caso di lunghe esposizioni. Qualcuno si è spinto a proporre un uso esteso di tali sorgenti ipotizzando che ciò potesse consentire di ridurre al minimo il ricambio dell’aria. Recenti studi hanno dimostrato che le lampade a 222 nm – pur non essendo particolarmente pericolose per la vista e per la pelle – possono comunque provocare un grave inquinamento ambientale, specialmente quando nell’aria sono presenti alcuni tipi di composti organici.

Chi ha seguito il mio vecchio blog durante i momenti più acuti della pandemia di Covid-19 forse ricorda qualcuno dei numerosi post dedicati all’uso della radiazione ultravioletta (in particolare la cosiddetta UV-C compresa tra circa 205 e 280 nm) per sanificare l’aria di ambienti chiusi. L’idea era quella di eliminare i virus presenti nell’aria, minimizzando così le probabilità di contagio tra le persone che si trovavano all’interno dello stesso locale.

L’utilizzo di radiazione UV-C è una tecnica ben consolidata per sanificare ambienti ospedalieri o laboratori biologici. Le sorgenti di radiazione UV-C più comunemente utilizzate sono lampade a mercurio, filtrate per selezionare la radiazione emessa intorno alla lunghezza d’onda di circa 254 nm. Recentemente sono state prodotte sorgenti a LED che operano nello stesso intervallo di frequenza.

Purtroppo la radiazione UV a 254 nm può provocare – in caso di prolungata esposizione senza adeguate protezioni – danni alla vista o l’insorgenza di tumori della pelle. Per questo motivo, molti preferiscono utilizzare sorgenti ad eccimeri che emettono intorno alla lunghezza d’onda di 222 nm. Questo tipo di radiazione non produce danni apprezzabili alle persone in caso di esposizione, pur producendo un efficace effetto di sanificazione.

Durante la pandemia qualcuno aveva proposto di estendere l’uso delle sorgenti a 222 nm sottolineando che queste avrebbero potuto ridurre drasticamente i requisiti di ricambio dell’aria in particolari ambienti come ospedali o residenze per anziani. Il vantaggio sarebbe stato quello di ridurre le spese di funzionamento grazie al risparmio di una parte consistente degli elevati costi energetici provocati dagli impianti di ricircolo dell’aria.

Recenti studi sui sistemi di sanificazione UV-C operanti a 222 nm hanno dimostrato che tali sistemi non sono così sicuri come si ipotizzava in passato. In particolare, la radiazione a 222 nm interagendo con l’ossigeno dell’aria può produrre ozono (O3), mentre la reazione con l’acqua produce radicali liberi OH. Ambedue questi prodotti di reazione sono potenzialmente pericolosi per la salute umana. Il pericolo cresce ulteriormente se nell’aria trattata con la radiazione UV-C sono presenti composti organici che possono reagire con O3 e OH dando luogo a prodotti ancora più pericolosi se inalati dalle persone.

In altre parole, se invece di assicurare un veloce ricambio dell’aria pensassimo di risolvere il problema della sanificazione di un ambiente chiuso grazie all’irraggiamento con massicce dosi di radiazione a 222 nm, rischieremmo di creare un’atmosfera libera da virus e batteri, ma contenente livelli inaccettabili di composti chimici che – una volta inalati – potrebbero causare gravi danni alla salute.

Chi si illudeva di poter usare la radiazione a 222 nm come un efficace strumento per conciliare salute e risparmio energetico deve ricredersi.

Ciò non significa che i sistemi di ricambio dell’aria debbano essere necessariamente energivori. Ovviamente bisogna andare oltre all’idea di tenere le finestre spalancate anche in pieno inverno come veniva suggerito alle Scuole durante la pandemia. L’efficienza energetica degli impianti di ricambio dell’aria può essere fortemente aumentata se l’impianto viene dotato di un opportuno sistema di recupero dell’energia. Per ottenere tale risultato serve una progettazione adeguata e – soprattutto quando si ha a che fare con edifici già esistenti – servono interventi di ammodernamento e di adeguamento energetico che possono essere particolarmente costosi. Non si può fare tutto in una volta, ma impostando una adeguata programmazione si può ipotizzare di arrivare – entro un numero limitato di anni – ad un sostanziale miglioramento delle strutture che concili tutela della salute, riduzione dei rischi di contagio (per tutte le malattie trasmesse per via aerea a cominciare dalla semplice influenza) e risparmio energetico.

Oggi la sensazione dominante è che la maggior parte delle persone abbia ormai archiviato la pandemia nella sezione dei ricordi più lontani e che non ci sia sia un particolare interesse a fare prevenzione per il futuro. Si tratta – a mio avviso – di un atteggiamento sbagliato perché solo lavorando sistematicamente sul piano della prevenzione potremo evitare di ripetere gli errori del passato.

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