Le prospettive di sviluppo del sistema petrolifero americano

Il nuovo mandato del presidente Donald Trump nasce all’insegna del rilancio delle estrazioni di petrolio e gas naturale. “Dig-dig-dig” e “Frack-frack-frack” sono gli slogan che abbiamo sentito ripetere durante la campagna elettorale. Aldilà degli slogan, può essere utile ricordare che le future estrazioni petrolifere made in USA non potranno comunque prescindere da un limite naturale invalicabile: l’ammontare delle riserve petrolifere. Una parte molto significativa delle estrazioni americane proviene dal cosiddetto bacino Permiano, una vasta regione che si estende tra il Texas ed il New Mexico. Secondo le stime dell’Agenzia Internazionale dell’Energia le riserve del Permiano potrebbero iniziare a calare a partire dal 2029. Un traguardo che forse non interessa troppo a Trump che finirà il suo secondo ed ultimo mandato nel 2028, ma che pone forti dubbi sulle prospettive a medio-lungo termine delle estrazioni di combustibili fossili negli USA.

Un fattore che spesso viene sottovalutato dai fautori delle energie fossili è quello della limitatezza delle riserve ovvero della quantità complessiva di combustibili che si possono estrarre dal sottosuolo. I giacimenti di petrolio e gas naturale sono – per loro natura – soggetti ad esaurimento (non si rigenerano). In pratica, quando l’energia che si deve utilizzare per estrarre una certa quantità di combustibile fossile cresce fino a diventare più o meno equivalente all’energia che può essere prodotta dal combustibile estratto, il pozzo non è più conveniente dal punto di vista economico e deve essere abbandonato.

La stima delle riserve non è facile da fare perché deve tenere conto delle nuove scoperte che si faranno in futuro (sconosciute per definizione) e dell’evoluzione delle tecnologie estrattive. Malgrado queste difficoltà, si possono fare valutazioni abbastanza affidabili, anche se non precisissime. Questo vale soprattutto per le aree geografiche dove l’attività estrattiva è in corso ormai da lungo tempo.

Un forte salto alla produzione dei combustibili fossili è arrivato all’inizio di questo secolo grazie alla adozione delle tecniche di fracking (frantumazione idraulica) che hanno consentito di sfruttare depositi che sarebbero stati inutilizzabili se si fossero adottate le tecniche di estrazione tradizionali. Il fracking è una tecnica che ha costi di gestione piuttosto elevati perché richiede la frantumazione delle rocce sotterranee, in modo da liberare gli idrocarburi presenti in essi.

Il fracking non è privo di forti controindicazioni sia dal punto di vista ambientale che da quello della stabilità geologica e non mancano gli esempi di territori dove si è preferito rinunciare a tale tecnica estrattiva per non mettere a repentaglio la vivibilità dei luoghi.

La patria di elezione del fracking è il cosiddetto bacino Permiano (Permian basin in inglese) una vasta area che si estende tra il Texas ed il New Mexico ricca di giacimenti petroliferi. Questa regione ha generato – nel corso degli ultimi 20 anni – un consistente aumento delle estrazioni di petrolio e gas naturale che hanno permesso agli Stati Uniti di consolidare la sua posizione di primo estrattore a livello mondiale. Attualmente il bacino Permiano fornisce circa la metà dell’intera produzione petrolifera americana.

La figura seguente mostra il contributo del fracking alle estrazioni petrolifere americane (parliamo del cosiddetto shale oil). Si nota chiaramente che l’introduzione di tale tecnica ha invertito una tendenza al declino che si era registrata dopo il picco delle estrazioni raggiunto negli anni ’70 del secolo scorso:

Grafico delle estrazioni petrolifere americane basato su dati EIA

Con il ritorno di Trump alla Casa Bianca è presumibile che saranno rimossi tutti i vincoli di carattere ambientale che possono frenare la produzione di shale oil, ma paradossalmente questo potrebbe provocare una accelerazione del processo di esaurimento dei bacini. In questo momento negli USA c’è un forte dibattito che coinvolge geologi ed altri esperti del settore petrolifero, preoccupati per la stabilità a medio-lungo termine della produzione di shale oil.

Per il momento, i dati disponibili mostrano che il sistema si sta avvicinando ad un punto di massimo, ma non c’è ancora alcun segno di declino:

Produzione petrolifera del bacino Permiano secondo i dati EIA

Gli esperti si dividono sulla stima dell’anno in cui sarà raggiunto il punto di massima produzione (che va dal 2025 al 2030 a seconda delle fonti considerate) e soprattutto sull’entità del calo produttivo che si registrerà successivamente. Molti prevedono che nei prossimi anni si possa assistere ad un rapido declino della produzione (qualcuno parla di un crollo del -20/30% nel corso del prossimo decennio). Alla fine Madre Natura potrebbe avere il sopravvento ed il presidente Trump non potrà fare più di tanto per contrastare la tendenza in atto.

Questa potrebbe essere una buona notizia dal punto di vista ambientale e climatico, ma anche da quello economico generale: come ricordato precedentemente, il petrolio esiste in natura in quantità finita e se ne estraiamo troppo rischiamo di accelerare il processo di esaurimento dei pozzi. Considerato che il petrolio – aldilà degli usi energetici – è anche una materia prima preziosa per molti processi chimici (grazie ai quali produciamo plastiche, farmaci, coloranti, fertilizzanti e tanti altri prodotti) forse sarebbe meglio smettere di bruciarlo ed estrarre solo la quantità strettamente necessaria per alimentare i processi chimici dove non esistono materie prime alternative (o ci sono, ma hanno prezzi insostenibili).

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